• IMAGINE (Immagina)
    (John Lennon)

    Immagina che non c'è nessun paradiso,

    E facile se provi,
    Nessuno inferno sotto noi,
    Sopra noi solo il cielo.
    Immagina tutta la gente
    Che vive per oggi.

    Immagina che non c'è nessun paese,
    Non è difficile da fare,
    Niente per uccidere o morire,
    E anche nessuna religione,
    Immagina tutta la gente,
    Che vive in pace.

    Tu dici che sono un sognatore,
    Ma non sono il solo,
    Spero un giorno o l'altro ci uniremo,
    E il mondo sarà unico.

    Immagina che non ci sono possedimenti,
    Mi meraviglio se puoi,
    Nessuna necessità per avidità o fame,
    Una fratellanza tra uomini,
    Immagina tutta la gente
    Condividere tutto il mondo.

    Tu dici che sono un sognatore,
    Ma non sono il solo,
    Spero un giorno o l'altro ci uniremo,
    E il mondo sarà unico.

    ----------

    John Lennon in questo brano del 1971 ci invita, come il titolo stesso rende evidente, a immaginare, immaginare un mondo diverso, forse non realizzabile, ma certamente più bello di quello che conosciamo. All’inizio il testo ci invita a immaginare che non esista nulla al di là di quello che viviamo qui ed ora, poi che non ci siano confini o nazioni e che non esistano motivi per morire o uccidere altri uomini. Insomma un mondo ideale, un mondo che a immaginarlo si rischia di essere bollati seduta stante come sognatore, ma Lennon confida che il suo sogno un giorno sia condiviso da sempre più persone e che, pertanto, diventi realizzabile.


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  • LA LIBERTÀ
    (Giorgio Gaber)

    Voglio essere libero, libero come un uomo.

    Vorrei essere libero come un uomo.

    Come un uomo appena nato
    che ha di fronte solamente la natura
    che cammina dentro un bosco
    con la gioia di inseguire un'avventura.
    Sempre libero e vitale
    fa l'amore come fosse un animale
    incosciente come un uomo
    compiaciuto della propria libertà.

    La libertà non è star sopra un albero,
    non è neanche il volo di un moscone.
    La libertà non è uno spazio libero.
    Libertà è partecipazione.

    Vorrei essere libero, libero come un uomo.

    Come un uomo che ha bisogno
    di spaziare con la propria fantasia,
    e che trova questo spazio
    solamente nella sua democrazia.
    Che ha il diritto di votare
    e che passa la sua vita a delegare,
    e nel farsi comandare
    ha trovato la sua nuova libertà.

    La libertà non è star sopra un albero,
    non è neanche avere un'opinione.
    La libertà non è uno spazio libero.
    Libertà è partecipazione.

    Vorrei essere libero, libero come un uomo.

    Come l'uomo più evoluto
    che si innalza con la propria intelligenza,
    e che sfida la natura
    con la forza incontrastata della scienza.
    Con addosso l'entusiasmo
    di spaziare senza limiti nel cosmo,
    e convinto che la forza del pensiero
    sia la sola libertà.

    La libertà non è star sopra un albero,
    non è neanche un gesto o un'invenzione.
    La libertà non è uno spazio libero.
    Libertà è partecipazione.

    La libertà non è star sopra un albero,
    non è neanche il volo di un moscone.
    La libertà non è uno spazio libero.
    Libertà è partecipazione.

    La libertà non è star sopra un albero,
    non è neanche il volo di un moscone.
    La libertà non è uno spazio libero.
    Libertà è partecipazione.

    ----------

    Giorgio Gaber è capace di scavare l’origine di una forma di libertà intesa come condizione non esclusivamente imputabile alla natura umana (Come un uomo appena nato / Che ha di fronte solamente la natura), bensì ad una ricerca che prende il significato di desiderio (Vorrei essere libero / libero come un uomo) in grado di trasporre la propria più primitiva esistenza in un contesto pubblico nel quale, secondo il cantautore, l’uomo, animale sociale, possa intendere l’unica reale forma di questa libertà: quella che prende i sinonimi di collettività (Libertà è partecipazione) e democrazia (Come un uomo che ha bisogno / Di spaziare con la propria fantasia / E che trova questo spazio / Solamente nella sua democrazia).
    Gaber cerca di elevare l’uomo oltre la mera istintività (Sempre libero e vitale / Fa l’amore come fosse un animale) e un interesse volto solo verso i propri confini (La libertà non è star sopra un albero), creando un nuovo concetto della parola stessa: la libertà è sì ideologia (E convinto che la forza del pensiero / Sia la sola libertà) ma non fine a se stessa, bensì condivisa in uno spazio collettivo capace di richiamare l’impegno sociale e politico. Ci si slega dunque dalle direttive di partito (E che passa la sua vita a delegare / E nel farsi comandare / Ha trovato la sua nuova libertà) e si rende tale libertà non oggetto, non condizione (Non è neanche un gesto o un’invenzione), ma natura stessa di un uomo capace e fiero di partecipare attivamente alle decisioni della propria esistenza. Non ci si arrende dunque a vivere in una forma di passività sociale, la quale viene superata partendo dal proprio diritto di voto, per poi innalzare la propria intelligenza non per sfidare la natura, ma per spaziare senza limiti in un cosmo che nient’altro è, se non il mondo: il proprio e quello di tutti.
    Il momento storico in cui Giorgio Gaber scrisse questa canzone, fu un periodo di grande sollecitazione politica e ideologica: lui stesso, con questo brano, incita a quella forma di democrazia diretta come società modellata sul concetto di comune: tutti partecipano alle decisioni per il bene della comunità stessa.
    La storia ha probabilmente dimenticato questa proposta sociale: quel che non deve esser scordato, è la proposta di riflessione che questa canzone può rinnovare ad ogni ascolto, a discapito della storia stessa, da non limitare solo ad un impegno politico locale, ma ad una forma di interesse totale e globale, essenziale per poter essere, per davvero, tutti partecipi e, di conseguenza, a nostro modo liberi.


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  • LA GUERRA DI PIERO
    (Fabrizio De André)

    Dormi sepolto in un campo di grano

    Non è la rosa, non è il tulipano
    Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
    Ma son mille papaveri rossi

    Lungo le sponde del mio torrente
    Voglio che scendano i lucci argentati
    Non più i cadaveri dei soldati
    Portati in braccio dalla corrente

    Così dicevi ed era d’inverno
    E come gli altri verso l’inferno
    Te ne vai triste come chi deve
    Il vento ti sputa in faccia la neve

    Fermati Piero, fermati adesso
    Lascia che il vento ti passi un po’ addosso
    Dei morti in battaglia ti porti la voce
    Chi diede la vita ebbe in cambio una croce

    Ma tu no lo udisti e il tempo passava
    Con le stagioni a passo di giava
    Ed arrivasti a passar la frontiera
    In un bel giorno di primavera

    E mentre marciavi con l’anima in spalle
    Vedesti un uomo in fondo alla valle
    Che aveva il tuo stesso identico umore
    Ma la divisa di un altro colore

    Sparagli Piero, sparagli ora
    E dopo un colpo sparagli ancora
    Fino a che tu non lo vedrai esangue
    Cadere in terra a coprire il suo sangue

    E se gli sparo in fronte o nel cuore
    Soltanto il tempo avrà per morire
    Ma il tempo a me resterà per vedere
    Vedere gli occhi di un uomo che muore

    E mentre gli usi questa premura
    Quello si volta, ti vede e ha paura
    Ed imbracciata l’artiglieria
    Non ti ricambia la cortesia

    Cadesti in terra senza un lamento
    E ti accorgesti in un solo momento
    Che il tempo non ti sarebbe bastato
    A chiedere perdono per ogni peccato 

    Cadesti a terra senza un lamento
    E ti accorgesti in un solo momento
    Che la tua vita finiva quel giorno
    E non ci sarebbe stato un ritorno

    Ninetta mia, a crepare di maggio
    Ci vuole tanto, troppo coraggio
    Ninetta bella, dritto all'inferno
    Avrei preferito andarci in inverno

    E mentre il grano ti stava a sentire
    Dentro alle mani stringevi il fucile
    Dentro alla bocca stringevi parole
    Troppo gelate per sciogliersi al sole

    Dormi sepolto in un campo di grano
    Non è la rosa, non è il tulipano
    Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
    Ma sono mille papaveri rossi

    ----------

    La Guerra di Piero di Fabrizio De André è uno degli esempi della sua poetica più fulgidi ed esemplari. Una ballata folk che ripercorre una storia di un soldato qualunque in una guerra qualunque, costruita sulla stessa melodia che scivola su un giro di accordi ripetuto per dare il sapore di una filastrocca favolosa.
    La canzone vuole riportare la guerra alla sua componente umana, soldato contro soldato e uomo contro uomo, raccontando della fine di una persona qualsiasi sotto l’arma di un nemico persona qualsiasi come lui. Com'è noto, l’ispirazione venne a De André dai racconti dello zio, che aveva combattuto in Albania durante la guerra.
    Si inizia dalla fine. Il soldato caduto non è mai rientrato in patria e sulla sua lapide non vengono poggiati i fiori dedicati ai cari estinti. Al contrario, si trova in un anonimo campo di grano e gli unici fiori per lui sono papaveri. La scelta non è casuale: fin dal primo dopoguerra, è proprio questo il fiore che si usa per rendere omaggio ai soldati deceduti in battaglia.
    Inizialmente pacifista, il soldato (per ora ancora senza nome) si ritrova suo malgrado coinvolto nel conflitto, non sappiamo quale. Viene implicato che parte per senso del dovere ma controvoglia (come tutti del resto). Il riferimento al freddo, all'inverno e alla neve potrebbe riportare alla campagna di Russia durante la Seconda Guerra Mondiale, ma l’indicazione è volutamente vaga.
    In marcia verso il fronte, Piero sfiora il “vento” della guerra che giunge fino a lui. I morti sono già tanti e pur conoscendone la sorte il soldato arriva comunque, giunta la primavera, sul luogo dei combattimenti. Il dovuto avvertimento sulla sua triste sorte gli è già giunto, ma egli non lo ha udito.
    Per qualche motivo Piero è solo, e si trova in presenza di un soldato nemico. Come sottolinea De André, la vera differenza tra i due sta semplicemente nel colore della divisa, indice di schieramenti avversari. Ma il “nemico” è esattamente come Piero: inesperto, pauroso, umano. Se fosse per lui, non si troverebbe certo lì.
    A questo punto si pone la classica ardua decisione, che chissà quanti soldati si saranno tragicamente trovati a dover compiere in conflitto: “Io o lui”. Piero non deve esitare, è letteralmente questione di vita o di morte. Nessuno può aiutarlo e c’è solo da vedere chi compirà la prima mossa, prendendo la decisione “giusta” in anticipo sull'avversario.
    Ma Piero esita per un momento di troppo. L’altro, spinto, come viene sottolineato, non da cattiveria o violenza, ma semplicemente dalla paura di perdere la sua stessa vita, fa fuoco per primo. Al contrario di Piero, non ha alcuna esitazione e il nostro soldato viene colpito a morte.
    Il terribile, inimmaginabile momento in cui Piero si rende conto di star per morire. Solo in pochi nella letteratura, come Tolstoj ne La Morte di Ivan Il’ic (1886) hanno osato spingersi ad immaginare che cosa può provare una persona in un istante del genere. I pensieri di Piero vanno all'amata, e all'amara ironia di una fine giunta in un bel giorno di primavera e non in un triste giorno d’inverno.
    Così finisce la vita di Piero, soldato anonimo senza un destino e senza un vero nome, come tanti altri caduti in battaglia per ragioni distanti e intangibili per loro. Con una semplice e delicata ballata, De André riassume tutta l’umanità della quale l’uomo viene spogliato dall'insensatezza della guerra.


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  • AUSCHWITZ
    (Francesco Guccini)

    Son morto con altri cento

    Son morto ch'ero bambino
    Passato per il camino
    E adesso sono nel vento
    Adesso sono nel vento

    Ad Auschwitz c'era la neve
    Il fumo saliva lento
    Nel freddo giorno d'inverno
    E adesso sono nel vento
    Adesso sono nel vento

    Ad Auschwitz tante persone
    Ma un solo grande silenzio
    È strano: non riesco ancora
    A sorridere qui nel vento
    A sorridere qui nel vento

    Io chiedo come può l'uomo
    Uccidere un suo fratello
    Eppure siamo a milioni
    In polvere qui nel vento
    In polvere qui nel vento

    Ancora tuona il cannone
    Ancora non è contento
    Di sangue la belva umana
    E ancora ci porta il vento
    E ancora ci porta il vento

    Io chiedo quando sarà
    Che l'uomo potrà imparare
    A vivere senza ammazzare
    E il vento si poserà
    E il vento si poserà

    Io chiedo quando sarà
    Che l'uomo potrà imparare
    A vivere senza ammazzare
    E il vento si poserà
    E il vento si poserà
    E il vento si poserà

    ----------

    "Auschwitz" (Canzone del bambino nel vento) è indubbiamente una delle più celebri canzoni di Guccini, simbolo della sua partecipazione ai drammi umani e del suo intendere la musica non solo come diletto, ma anche come strumento di denuncia.
    Egli prende in esame il tema dell'olocausto, ma la seconda parte della canzone trascende tale contesto per abbracciare una più estesa riflessione sulla ferinità umana.
    La prima strofa presenta la situazione in termini molto schematici: il narratore è un personaggio morto da bambino in una condizione strana; "passato per il camino". L'insistenza sul termine morto in apertura dei primi due versi crea l'atmosfera cupa e nostalgica che accompagna tutto il brano. Da notare è la durezza di quel "con altri cento" che evidenzia l'impersonalità del massacro, sottolineandone allo stesso tempo la dimensione. La prima strofa si chiude poi con la presentazione della situazione attuale: il narratore si trova nel vento.
    La seconda strofa, invece, tratteggia la scenografia del dramma ponendo subito in rilievo un nome terribile, evocatore di sofferenza e paura, Auschwitz: l'inverno, il freddo e la neve, che potrebbe essere la gioia di ogni bambino, ma non di colui che si trova lì a morire; c'è poi l'ambiguità del fumo e del camino, che ricordano scene di tranquillità domestica, ma sono qui ben altri segni. La terribile fine è solo accennata, con gusto per così dire classico, senza insistenza su macabri particolari, ma, semplicemente, con l'immagine di un fumo che sale e la presenza di persone che scompaiono, però, per ritrovarsi nel vento.
    La terza strofa funge da collegamento tra le due parti del pezzo opponendo alla massa il suo silenzio. L'antitesi crea un efficace sensazione di vuoto, di freddo e morte: questi uomini, ma sono ancora uomini? Non osano più parlare, sono spogliati della propria dignità e individualità, sono tra quei cento o lo saranno presto. Il tempo non cancella quei ricordi nel bimbo morto, egli non riesce a sorridere e si chiede invece, ingenuamente e forse infantilmente, il perché di quelle stragi. È questo il momento il cui la prospettiva si amplia e si universalizza quell'esperienza di morte. Guccini sembra pessimista, non ha fiducia nell'uomo e nella sua perfettibilità, lo coglie solo nel suo atto crudele: fantastica intuizione quella di porre alla fine di due versi consecutivi i termini uomo e fratello legati dal crudo realismo del verbo uccidere.
    Al bimbo, e indubbiamente la scelta come narratore del simbolo dell'innocenza e della purezza non è casuale, sembra assurdo che tutto questo sia potuto accadere, ma è costretto a costatare l'evidenza del fatto: "siamo a milioni/in polvere qui nel vento". Ancora un numero enorme, come il cento iniziale, rende l'idea dell'ampiezza del fenomeno esasperandone la gratuità.
    La penultima strofa sembra un grido, un grido di rabbia impotente e disperato, la cui forza è ottenuta con sapienti scelte lessicali: il cannone tuona, terribile segno di morte, e il sangue scorre ininterrotto, per culminare con lo stridente contrasto tra questo sangue, l'aggettivo contenta e la connotazione di bestia umana assegnata a tutta l'umanità. Del resto l'impersonalità del termine uomo, usato due volte, sottolinea già da sola come le accuse e le domande siano rivolte all'umanità intera, tutta ugualmente colpevole se non dell'olocausto, di altri innumerevoli assassinii.
    Tuttavia Guccini non se la sente di chiudere così, vuole lasciare un varco, una via di scampo all'uomo, sperare che si possa ancora redimere: ecco il significato dell'uso del futuro nell'ultima strofa che si apre ancora con un "Io chiedo" che questa volta non è tanto una domanda o un'accusa quanto piuttosto una preghiera, una speranza che vuole a tutti i costi uscire e realizzarsi e che è tutta contenuta in quel verso "a vivere senza ammazzare", così semplice eppure tanto intenso e diretto.
    Non si può ignorare nell'analisi di questo pezzo la presenza del vento, vero elemento costante nella chiusura di ciascuna strofa. Il vento che sembra leggero e spensierato è in realtà greve del peso di tutti quei morti, è un vento irrequieto che sembra schiacciare l'uomo gettandogli addosso le sue colpe, accusandolo con l'innocente, ma per questo più dura, voce di un bambino. In tutte le strofe esso è accompagnato da qui, ancora, adesso, a sottolineare come si stia parlando di qualcosa di presente e attuale su cui è necessario riflettere. Pensare, però, non basta, bisogna, è questo il significato delle ultime strofe, agire e cambiare, solo così "il vento si poserà".


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  • LET IT BE (Lascia che sia)
    (The Beatles - Lyrics by Paul McCartney)

    Quando mi trovo in momenti difficili

    Madre Mary viene da me
    dicendo parole di saggezza: lascia che sia,
    e nella mia ora di oscurità
    lei resta in piedi di fronte a me
    dicendo parole di saggezza: così sia.

    Lascia che sia, lascia che sia,
    lascia che sia, lascia che sia,
    sussurra parole di saggezza: lascia che sia.

    E quando le persone col cuore spezzato
    che vivono nel mondo sono d’accordo,
    allora ci potrà essere una risposta: lascia che sia.
    Per quanto possano essere divisi
    c'è ancora una possibilità che vedranno
    arriverà la risposta: lascia che sia.

    Lascia che sia, lascia che sia,
    lascia che sia, lascia che sia,
    arriverà la risposta: lascia che sia

    Lascia che sia, lascia che sia,
    lascia che sia, lascia che sia,
    arriverà la risposta: lascia che sia

    Lascia che sia, lascia che sia,
    lascia che sia, lascia che sia,
    arriverà la risposta: lascia che sia

    E quando la notte è nuvolosa
    c’è ancora una luce che splende su di me,
    e splenderà fino a domani: lascia che sia.
    Mi sveglio al suono della musica,
    Madre Mary viene da me,
    non ci sarà dolore: lascia che sia

    Lascia che sia, lascia che sia,
    lascia che sia, lascia che sia,
    non ci sarà dolore: lascia che sia

    Lascia che sia, lascia che sia,
    lascia che sia, lascia che sia,
    sussurra parole di saggezza: lascia che sia.

    ----------

    Il periodo in cui Paul McCartney scrisse "Let It Be" non era tra i più rosei nel gruppo, anzi stavano affrontando una crisi. La canzone fu ispirata da un episodio, raccontato da Paul McCartney. Fece un sogno dove dialogava con la madre, morta di cancro nel 1956 quando lui aveva solo 14 anni. Nel sogno, la madre consigliava al figlio, preoccupato per le tensioni nel gruppo, di lasciar correre, e che pian piano le cose si sarebbero risolte.


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